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Mess Age

Il messaggio è il mezzo: blog di igiene mentale per attraversare indenni la nube tossica della comunicazione ai tempi del web e dei social media.

Vivere, forse trollare, querelare: è la rete, bellezza

Mentre discutiamo di censura e di leggi speciali per internet, nel Regno Unito Sally Bercow viene condannata per un emoticon in un twit. La parabola di #jimmyhaipantalonimarroni.

Benvenuti nell'Internet

Benvenuti nell'Internet

La scorsa settimana Intervistato.com ha pubblicato un mio articolo dal titolo "La difesa del web libero, che non è libero". Vi notavo come il dibattito sulla censura in rete si basi quasi sempre su un presupposto: che il web sia un'isola di libertà e che qualcuno la voglia controllare.

In realtà, il web è già molto più censurato e controllato di quanto immaginiamo. Non solo dalle autorità (oltre 5000 siti attualmente oscurati solo in Italia), ma anche dalle policy di Google, Facebook e tutti i servizi web 2.0 a cui affidiamo i nostri pensieri e spesso anche il nostro lavoro, concedendo loro anche il diritto di farne quello che vogliono.

Infine, la censura esiste anche grazie a stupidi algoritmi che sparano nel mucchio punendo la probabilità di un abuso, o al primo cretino che può segnalare un nostro contenuto e farlo rimuovere o escluderci da questi canali anche senza un fondato motivo.

Bene, proprio nei giorni scorsi nel Regno unito la moglie dello speaker della Camera dei Comuni Sally Bercow è stata condannata per diffamazione su Twitter. Sei mesi fa, aveva inviato al mondo questo messaggio: "Perché lord McAlpine è un trend topic su Twitter? *faccina innocente*". Lord McAlpine proprio in quel momento veniva accusato in un programma televisivo di abusi sessuali.

Invano la difesa della Bercow ha tentato di sostenere che su Twitter la gente "dice cose a caso senza necessariamente alludere a niente".

In queste settimane abbiamo discusso molto di violenza verbale in rete da parte di altrimenti mansueti cittadini, o di agitatori digitali. La polizia postale si è prodigata per far rimuovere le foto fake della Boldrini e per rintracciare una ventina commentatori che un anno fa avevano ingiuriato il Presidente della Repubblica sul blog di Grillo. Senza entrare nel merito delle vicende, comunque problematiche, si trattava di espressioni oggettivamente e letteralmente pesanti, anche se le autorità hanno dimostrato ben maggiore solerzia del solito nel perseguirle.

Ma la sentenza Bercow sembra inaugurare un nuovo filone, quello del processo alle intenzioni, della persecuzione della diffamazione implicita, con tutte le conseguenze della mancanza di canoni sicuri per interpretare tali intenzioni e soprattutto senza un dibattito serio sulla sensatezza di farlo.

Un filone già latente nel sistema dei social network, che ci invitano a esprimere in modo compulsivo tutto ciò che ci passa per la testa, senza alcun filtro e selezione, come ha descritto molto meglio di me Giovanni Acerboni in un perfetto status di Facebook:

fb: a cosa stai pensando?
giovanni: sto pensando che con questa domanda, tu fai due cose. la prima: farmi dimenticare la mia ignoranza e sedurmi a considerare pensiero quelle sciocchezze che mi passano per la testa. La seconda, di sedurre la mia vanità e indurmi a pubblicare quelle sciocchezze.

Giovanni Acerboni

I social network, in fondo, si basano su una lusinga: tu sei importante, ciò che pensi è importante. Erano passate solo poche ore dall'annuncio della morte di Andreotti, e L'Espresso riportava una scelta di lazzi più o meno riusciti e prevedibili con nome e cognome e link agli autori.

Il rito si ripete a ogni evento pubblico, a ogni inciampo di VIP, che ormai è la miccia di una gara tra ubriachi per farsi notare. Per questo dovremmo ringraziare l'Internet, perché un tempo per finire sui giornali la gente tirava i sassi dal cavalcavia. Non fosse che, come ho notato su Intervistato.com, si possono fare danni altrettanto gravi con un clic.

Eppure, questa lusinga ha anche il suo lato oscuro. Perché quando le facezie migrano dalla nostra testa e dai bar sulla rete, si fissano su un supporto pubblico in apparenza effimero che però ci identifica quasi con la stessa precisione delle nostre impronte digitali.

Va benissimo dunque discutere di libertà di espressione e di diritti in rete. Però, come già dissi, proteggiamo gli idioti. Perché è stupido ignorare che tutto ciò che rendiamo pubblico sul web rimane e che qualcuno, uno Stato, un Google, una vittima contusa o un cretino possa un giorno bussarci alla porta per chiederci conto delle nostre parole.

Exergo: la parabola di #jimmyhaipantalonimarroni

Voglio quindi concludere con una parabola, quella @jimmyob88, che su Twitter trollò il pugile Curtis Woodhouse definendolo "spreco di sperma" e "completa disgrazia" per aver appena perso un incontro. Il pugile sulle prime stette al gioco, poi, indispettito per l'insistenza, cominciò a informarsi sul suo ammiratore, offrendo sempre su Twitter un  premio per chi lo aiutasse.

In men che non si dica scoprì il nome completo di @jimmyob88, prese la macchina e si recò sotto casa sua, twittandogli una foto dell'ingresso. La storia finisce con @jimmyob88 che implora perdono e Woodhouse che trolla a sua volta il troll lanciando l'hashtag #jimmyhaipantalonimarroni.

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